Al maestro
Pai-chang fu chiesto:
‘Che cosa
dobbiamo fare per raggiungere la liberazione?’
‘cercare
l’illuminazione improvvisa’
‘Che cosa è
l’illuminazione improvvisa?’
‘Liberarsi in
un attimo di tutti i pensieri e comprendere che non c’è niente che possa essere
“raggiunto” ‘
‘Da dove
dobbiamo cominciare?’
‘Dalla radice
stessa’
‘E che cosa è
la radice’
‘La coscienza’.
Ho voluto cominciare da questa bella storiella zen per
introdurre l’argomento del presente post.
La
coscienza e le sue basi corporee.
Cosa questo significhi e come interviene, secondo me,
in nostro aiuto nella vita quotidiana lo vedremo tra breve, nel corso della
trattazione.
Per prima cosa, invece, poiché le parole sono “scatole
vuote e cangianti”, chiariamoci: qual è il concetto di coscienza cui faccio
riferimento?
Sgombriamo innanzitutto il campo da incrostazioni
etiche per cui la coscienza è la capacità di distinguere il bene e il male per
orientare i comportamenti.
Il termine - è qui usato in un’accezione molto neutra
e generale - intende far riferimento alla
capacità di un organismo vivente di verificare in modo dinamico, ricorrente e
assolutamente non predeterminato il suo funzionamento e la sua interazione
con l’ambiente circostante.
Tale capacità dei sistemi complessi si esprime in vari
modi e attraverso diverse componenti fondamentali, tra cui:
§
Presenza
(percezione di sé come entità distinta dall’ambiente e della interazione con lo
stesso)
§
Immaginazione
(utilizzo delle informazioni acquisite in modo estemporaneo e di quelle
depositate in memoria)
§
Attenzione
(raccolta di stimoli esterni e interni)
§
Volontà
(risultante di elaborazioni di ipotesi del tipo: “cosa accadrebbe se” e loro
perseguimento)
§
Emozioni
(caratteristiche che emergono sulla base delle componenti di percezione e
attenzione)
§
Memoria del
proprio vissuto.
Ciò che vorrei arrivare a descrivere con termini
essenziali e divulgativi e che tutte queste componenti hanno natura
esclusivamente corporea; nel senso che si formano nel corpo, con un processo
iterativo di scambio perpetuo con l’ ambiente e si esprimono con il corpo.
Meccanismi neuro-fisiologici, di diverso grado di
complessità, presiedono agli aspetti della coscienza sopra evidenziati.
Essa (la coscienza) conferma la propria natura
corporea non soltanto se indagata nei meccanismi neurologici ma anche nel suo
significato più “filosofico” di messa in relazione del proprio mondo interno
con del mondo esterno.
Quando si sente dire, sovente, che quella che viviamo
è una realtà “creata” da noi si intende in verità fare riferimento ad un
fenomeno molto concreto che spiega
quello che intendo per basi corporee della coscienza.
Nel porre in relazione mondo interno ed esterno ognuno
di noi, più o meno inconsapevolmente, fa ricorso a dei modelli
rappresentazionali: delle mappe del mondo interiore ed esteriore con cui
l’individuo con un processo iterativo di individuazione e scambio con l’esterno
definisce se stesso e il mondo, come oggetti reali.
Come e dove si disegnano queste mappe? Nel corpo e
mediante il corpo a partire dalle esperienze.
Sono esperienze di specie, trascritte nel patrimonio
genetico, e sono esperienze individuali. Tramite esse il nostro corpo
costruisce una mappa delle sensazioni e delle emozioni alle quali noi diamo un
nome e significato in base al contesto socio-culturale di riferimento e a una
memoria semantica a più livelli trasmessa. Ma il nome e il significato come
mediatore simbolici vengono dopo e sono acquisiti da tale contesto;
l’imprinting esperienziale, invece, avviene per una vera e propria
“incorporazione”.
Per questo ognuno di noi ha un proprio profilo
emotivo; un proprio gradiente di “emozionabilità”; e una distinta reazione a
stimoli (che, almeno nella loro esteriorità, appaiono) analoghi.
E’ un po’ come un pc che può leggere file di un certo
tipo soltanto se ha incorporato il relativo programma!
Uno stimolo dall’esterno arriva a noi sotto una delle
tante forme di energia (da quelle elementari di calore, pressione a quelle più
complesse del pensiero e della parola che ci arriva da una conferenza o
leggendo un giornale) e grazie a un meccanismo di trasduzione dello stimolo si
trasforma in una carica elettrica che procura una variazione di potenziale
d’azione lungo le vie di trasmissione nervosa e genera una qualsiasi risposta
di interrelazione con l’ambiente (da quelle più immediate e “semplici” come
quelle riflesse – tocco inavvertitamente una fiamma=ritraggo la mano - a quelle
molte più articolate e complesse il pensiero ascoltato dell’esempio precedente
mi procura una riflessione e/o una emozione).
Fin qui nulla di nuovo si tratta di acquisizioni
scientifiche date e consolidate.
Ma che dire di fronte a sentimenti complessi e
imponderabili, soffici e mutevoli come cirri, mossi dal vento dell’anima? Ebbene,
pure questo è corpo.
Da anni ad esempio la ricerca neurobiologica è
incentrata sul ruolo funzionale che piccolissime molecole – i neuro peptidi –
avrebbero nel mediazione chimica delle emozioni.
Tali molecole e i loro relativi recettori, sono stati riscontrati
non soltanto a livello di sistema nervoso anche in altri distretti corporei (intestino,
reni, sistema immunitario) pertanto tutto l'organismo può considerarsi
interconnesso a livello di neuropeptidi.
Tanto che la nota ricercatrice Candace Pert scrive in
proposito: ….
Potrebbe anche essere che i neuropeptidi
influenzano il processo delle informazioni solo quando occupano i recettori nei
punti nodali del cervello e del corpo. Se è così, ogni neuropeptide può evocare
un solo «tono», equivalente a uno stato d’animo”.
All’inizio
del mio lavoro, pensavo realisticamente che le emozioni erano nella testa o nel
cervello. Ora direi che esse sono anche nel corpo. Si esprimono nel corpo e
fanno parte del corpo. Non riesco più a fare una netta distinzione tra il
cervello e il corpo.[1]
Occorre passare, pertanto, da una visione
“verticalista” (che prevede: vie nervose ascendenti e discendenti (dal centro
alla periferia e viceversa); un cervello che gestisce e un corpo che obbedisce;
una anima che sovraintende le nobili questioni dello spirito) a una visione dell’organismo
come network di informazioni diffuse e rivedere il concetto di “energia” in
termini di informazione. Tale
informazione si alloca e si esprime nel corpo ma esce da esso per circolare e
tornare in tutte le cose dell’universo, viventi e non, e ciò rende tale
universo un unico network intelligente.
E’ una visione meccanicistica che nega l’anima, il
trascendente e la dimensione spirituale? No!
E’ una visione profondamente mistica che ci
rappresenta come un Tutto – uomini e cose – connesso e intelligente. E
l’intelligenza di questo Tutto è riprodotta, come struttura di un medesimo
frattale, nell’intelligenza del funzionamento corporale degli organismi
viventi.
Questo ci rende divini: nel senso di portatori dell’intelligenza della
creazione. Questo giustifica in termini atei e corporei l’esistenza di un’“anima”
come informazione che torna al serbatoio unico e costante dell’informazione del
Tutto.
Questo, senza voler denigrare altri sistemi valoriali,
spiega su basi terrene la ”resurrezione della carne“ quando il nostro corpo
al momento della morte, cambia di
stato, si scompone nei suoi componenti elementari e torna come materia
(energia) al Tutto, in cui a livello sistemico nulla si crea e nulla si
distrugge.
La sensazione di connessione che ci pervade di fronte
a questa consapevolezza e profondissima!
Nuove frontiere della conoscenza stanno intravvedendo
spiragli di questa “intelligenza universale”: penso ai filoni di ricerca della
fisica quantistica, della biologia molecolare e alla matematica dei frattali.
Il riconoscimento di una simile visione rivendica il
superamento della distinzione compartimentale delle conoscenze tra neuroscienza,
endocrinologia e immunologia. Tale distinzione deriva soltanto dai limiti del
nostro intelletto a cogliere come integrate le diverse manifestazioni della
stessa realtà.
Accolto questo punto di vista, si comprende che anche
l’(ormai non più) innovativo concetto di corpo-mente è una nostra dicotomia
concettuale.
Infatti, non solo non vi è alcuna
scissione/contrapposizione tra mente e corpo, ma anche la sinergia e
l’interrelazione tra le due entità concettuali ritenute comunque distinte nasce
da una nostra rappresentazione e decifrazione di un'unica realtà fenomenica. Ciò che noi stessi
chiamiamo mente (e quindi valori, modelli, rappresentazioni del mondo interno
ed esterno) è corpo!
Che essa sia confinata nel cervello o piuttosto
“diffusa” (nel corpo) o persino “estesa” (oltre lo stesso[2])
la mente è corpo.
Si tratta di un approccio nuovo che, se radicalmente
fatto proprio dalla cultura dominante, avrebbe effetti dirompenti a livello
epistemologico, sul modo di intendere e fare conoscenza, a livello filosofico[3]
e di dottrine psicologiche.
Comprendo che tale enunciazione generale così posta è
“vuota”; e per essere davvero rivoluzionaria dovrebbe confrontarsi di volta in
volta – con il necessario rigore scientifico - con diversi argomenti delle
varie correnti psicologiche, con i temi specifici dell’epistemologia, con il
variegato mondo delle idee filosofiche.
Tutto questo, ovviamente, non può essere affrontato in
questo spazio né io avrei tutte le competenze puntuali per poterlo fare.
Il punto focale è invece: per noi uomini e donne
chiamati alla quotidianità di ogni giorno che importanza, quale utilità hanno
simili riflessioni?
Dal punto di vista intellettuale, poca.
Attardandoci troppo su di esse rischieremmo di fare la
fine dell’uomo protagonista di un’interessante storiella attribuita la Buddha:
“Se un uomo colpito da una
freccia avvelenata non vuole che
gli sia tolta prima di sapere chi l’abbia lanciata, a quale casta appartenga,
quale sia la sua famiglia,…il tipo di arco che usa, il tipo di corda, il tipo
di punta ecc… costui morirà prima di conoscere tutte queste cose”.
E’ allora?
Torniamo a
dare leggerezza alle idee, ai pensieri e ai progetti.
Essi sono dotazioni connaturate alla nostra natura;
sono utili nella misura in cui sono funzionali a realizzare strategie per la
sopravvivenza. Non dimentichiamoci, però, che al di là di questa precipua funzione tutte le
idee, i sentimenti (e le dottrine in cui pretendiamo di cristallizzarle) hanno
la consistenza delle nuvole: mutevoli e in perpetuo cambiamento.
Il mio slogan è “esperiamo
l’esperienza”. Per far questo dobbiamo
riappropriamoci della fiducia nelle sensazioni del nostro corpo, dobbiamo
ripulire e affinare i meccanismi naturali del suo funzionamento.
Favorire il “sentire” è quanto tentano di ottenere da
sempre - con diversi approcci e presupposti teorici di partenza - le varie tecniche terapeutiche a
mediazione corporea.
Dalla bioenergetica, con il suo lavoro di grounding e
rimozione (o più propriamente consapevolezza) della corazza, al focusing e la
sua ‘felt sense’, all’apprendimento organico del Feldenkrais, al movimento
rigeneratore del Katsugen undo, ecc.
Vi propongo un esercizio per cominciare.
Poiché abbiamo detto che l’energia è informazione che
transita tra noi e le cose dell’universo fissiamo un setting che ci aiuta a creare nel presente questo campo di
condivisione.
Potremmo
utilizzare una campana tibetana o una candela accesa piuttosto che le volute
fumose di una stecca d’incenso (riterrei meno preferibile della semplice musica
a causa della sua minore … “consistenza
oggettuale”) insomma qualsiasi cosa con cui stare in relazione fisica
nel momento presente.
E’
semplicemente uno stare con ciò che è. Non deve essere rilassante, ipnotico o
bla bla bla.
Fissiamo
la fiamma della candela piuttosto che sentiamo il suono (e ancor più la
vibrazione) della nostra campana.
Non
ci aspettiamo niente! Non deve accadere nulla.
Prestiamo
soltanto attenzione a se percepiamo qualche sensazione nel corpo. Non deve
essere una perlustrazione investigativa… è soltanto un’attesa priva di
aspettative. Potremmo sentire o no .. magari sentiremo qualcosa la prossima
volta..mah chi lo sa.
Possono
passare pensieri, immagini più o
meno volontarie; non vanno ostacolati (pensiamo sempre!! Anche senza averne
consapevolezza…è il corpo tranquilli) se, senza cercarla, arriva qualche
sensazione non freniamola, non tentiamo di spiegarla e di analizzarla..non deve
svelare nulla al nostro “intelletto” deve semplicemente poter essere.
Può
trattarsi di un formicolio, di un crampo da qualche parte, di una sensazione di
calore o di pesantezza ( si tratta in genere di cose molto sottili e molto
comuni…) accogliamola con naturalezza. Sarà questo quello che dovrei sentire o
è suggestione… me lo sto immaginando? Scccc… va bene così!
Qualunque
ne sia la fonte per il fatto di percepirlo semplicemente esiste. Seguiamo
quella sensazione.. come muta nel corpo? Dove ci porta? Da quel senso di
contrazione alla pancia…si sposta
in forma di formicolio alle gambe? Bene seguiamola! Ci accorgiamo di
respirare meglio in modo più naturale? o, al contrario, la nostra respirazione
è più bloccata che all’inizio? Comunque sia va bene così! Lasciamola essere.
Rassegniamoci
a questa saggezza del corpo, Affidiamoci alla sua amorevolezza …non deve
condurci in nessun altro posto rispetto a quello in cui stiamo sedendo ora,
durante l’esercizio.
Buon
risveglio!
Lucio
[1] Candace Pert
/ , , and Neuropeptides and
their receptors: a psychosomatic network “
– Journal of Immunology 1985
135:820S-826S.
[2]
Interessantissima è al riguardo la posizione del biologo inglese Rupert Sheldrake sul campo morfico.
(cfr. R. Sheldrake, A
new science of life, 1981)
[3] Penso, tanto
per lanciare un tema di riflessione, a come ad esempio il “per-sé” Sartriano –
quale coscienza incapace di
afferrare la propria essenza, perennemente protesa in avanti a perseguire il
non ancora esistente (Sartre, “L’essere e il nulla”) – veda per sempre una via di
uscita al suo dramma.
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