"NULLA È MENO SCIENTIFICO DI NEGARE CIÒ CHE NON SI SPIEGA...." Jean Valnet

mercoledì 28 dicembre 2011

AUGURI PER IL 2012

Cari Olisti, a bottega e di  passaggio,  voglio augurare a tutti voi un fantastico davvero “NUOVO”, nuovo anno!
Spero che tutti voi (ed io con voi) possiate iniziate o continuare a realizzare la vostra natura più autentica, acquisendone piccole esperienze consapevoli ogni giorno.
Qual è la nostra natura più autentica?
Bella frase direte voi, ma in concreto?
Non è poi troppo difficile a trovarsi…. Basta fare un po’ di silenzio, smettere di pensare al nostro futuro e al nostro passato; dare una bella scrollata di spalle per buttare giù i tanti condizionamenti culturali e sociali e vedrete che… ops… resteranno i vostri bisogni primordiali, i movimenti naturali del corpo (quelli di cui tanto auspico da parte mia come vostra l’assunzione di consapevolezza), il reale sentire finalmente depurato dell’analisi del “giusto o sbagliato”!
Nessun sentimento nessuna emozione è bene o male!
Per il semplice fatto che si producono, appartengono semplicemente alla nostra organizzazione neuro-fisiologica; ci servono per stare in contatto con l’ambiente esterno. Nient’altro. Niente è più autentico, unico e assoluto del provarle! Semplicemente sono!
Forti di questa consapevolezza, consentitevi di essere felici…
Adesso!!
Siamo esseri votati  all’espansione e alla gioia, non abbiate paura di ciò che provate!
Non fate compromessi delle azioni fondamentali e dei comportamenti che vorreste attuare.
La vera felicità e lealtà verso gli altri è assumere in modo chiaro la propria posizione. La risposta degli altri farà il resto!
Non abbiate paura di voi.
E, non abbiate paura del nuovo che arriva o potrà arrivare.
La nostra idea di nuovo (e i timori a esso connessi) non è il nostro domani che ancora, come realtà fenomenica, non esiste!
Nel prefigurare ciò che sarà domani, nel mondo delle idee (di oggi!), pensate soltanto che, nell’ordine cosmico del Tutto, qualsiasi cosa ci arriva è quella che ci serve in quel preciso momento (malgrado i nostri patetici tentativi di controllare gli eventi per garantirci un esistenza tranquilla…)

Spendido anno NUOVO a tutti!
 Lucio

giovedì 1 dicembre 2011

IL POTERE TERAPEUTICO DELLA VOCE: Una rivisitazione bioenergetica.


La voce è il massimo strumento di auto espressione del mondo animale.
Anche nel caso dell’uomo, ancor prima della parola (di cui la voce diventa strumentale) essa assolve una grande funzione espressiva.
Nel neonato i gorgoglii (e il pianto che della voce si avvale) sono la primaria forma di espressione nel mondo, la modalità unica con cui egli manifesta emozioni (a prescindere che possa esserne consapevole o no) e con cui sperimenta nel corpo sensazioni legate alle proprie potenzialità espressive.
 Attraverso i “versi” il neonato mette in campo le sue capacità di emulazione e rispecchiamento e pone, pertanto, le basi dello scambio comunicativo.
Questa è la primordiale modalità con cui l’individuo, in quella fase di vita, esercita i diritti fondamentali di: esistere e di avere bisogno.

Ciò detto, si capisce come la voce e la sua manifestazione siano fondamentali per l’individuo.

Ecco perché personalmente ritengo che tutti i lavori interessanti che possono farsi con e sulla voce (penso alle varie tecniche di vocalizzazioni), come pure la ricerca dell’arricchimento spirituale ed energetico attraverso canti e mantra, debbano essere preceduti  da un lavoro propedeutico volto a “trovare” la propria specifica voce, mediante la liberazione da tutte le inibizioni muscolari (specchio di altrettante inibizioni emotive) che ne costringono e limitano l’espressione (e l’espressività).

Conosco per esperienza personale la potenza della recitazione dei mantra, si tratta di una pratica che lavora potentemente su piani energetici sottili e non necessità di propedeutici lavori di rilassamento, ma per sperimentarne l’efficacia bisogna “essere in  contatto” e ciò accade soltanto quando si è sgomberato il campo da “scorie” e rigidità personali.

Occorre fare spazio e pulizia per lasciare entrare qualcosa!

Ritengo che un lavoro simile vada affrontato – preliminarmente o simultaneamente – anche nel caso specifico del percorso didattico seguito dai cantanti (professionali e non).

Qui però è doverosa una puntualizzazione: sebbene i due lavori siano complementari, essi vanno concettualmente distinti.
Il lavoro di cui parlo è un tipo di percorso volto a far emergere la naturale spontaneità dell’auto-espressione; il percorso didattico dei cantanti è invece, per quel poco che ne so, un percorso orientato all’attenzione e al controllo specifico dell’emissione sonora.

E’ mio interesse concentrarmi solo sul primo tipo di lavoro, lasciando a chi a competenze in materia d’insegnamento di canto eventuali considerazioni aggiuntive con riferimento al lavoro didattico vero e proprio.

Del resto il trovare la propria voce è un concetto condiviso anche in altri sistemi culturali che impiegano la sonorità (del voce umana e degli strumenti vibratori) per finalità terapeutiche in senso lato.
Nel Nada Yoga (c.d. Yoga del suono), ad esempio, si tenta di trovare la propria nota naturale detta nota tonica (individuata con tecniche di rilassamento) per poi lavorare vocalizzando una quinta e una ottava sopra.
Al di là dell’approccio specifico proposto dal Nada Yoga, vediamo come si può strutturare un lavoro teso a liberare la forza espressiva della nostra voce.

Va preliminarmente fatto notare che i blocchi fisici (e le corrispondenti inibizioni emotive), che hanno effetto sulla voce (in particolar modo sulla sua profondità, timbro e utilizzo spontaneo degli armonici), possono essere localizzati in quattro distretti corporei:

1) nella zona diaframmatica;
2) nel cingolo scapolare e nei muscoli che ne controllano la sospensione (il cingolo scapolare, costituito da scapole e clavicole, è infatti molto mobile e può considerarsi sospeso sulla struttura portante dello scheletro assile, mediante un sistema di trazione che connette e coinvolge diverse catene muscolari. Esso è poi unito al tronco da una “fionda di sostegno” costituita dal muscolo grande dorsale e dai pettorali);
3) nei muscoli del collo (opportunamente distinti tra parte posteriore – muscoli retti, obliqui e splenii - preminentemente destinata a garantire la posizione della testa e parte anteriore – muscoli scaleni e muscolatura estrinseca e intrinseca della laringe - con una funzione preminente di flessione e di mobilità laringea);
4) nei muscoli della zona della bocca e regione facciale limitrofa (muscoli che assicurano la mobilità della lingua, della mandibola, muscoli che assicurano l’apertura della bocca: digastrico, omoiodeo, orbicolare della bocca, muscoli pterigoidei ne sono qualche esempio.).

L’ordine in cui li ho esposti è, nella generalità dei casi, significativo.

Infatti, un blocco della zona diaframmatica comporta un deficit nella respirazione c.d. addominale, con maggior impegno funzionale dei muscoli coinvolti nella respirazione toracica ( intercostali, pettorali, scaleni) e conseguente “incasso” del cingolo scapolare.
La tensione muscolare di norma associata a questa respirazione alterata, con il suo effetto contratturante sul muscolo trapezio (e sull’elevatore della scapola), fa il resto!

I muscoli ricompresi nei distretti nn. 3 e 4 sono preminentemente influenzati da dinamiche emotive connesse a esperienze inibitorie che si sono strutturate nella corazza posturale.
In particolare, un’emozione, più o meno persistente, di paura porta all’irrigidimento del collo nella parte posteriore (pensate alla reazione posturale immediata ad un improvviso spavento!) i muscoli della parte anteriore che funzionalmente sono  deputati principalmente (anche se non solo) alla flessione del capo subiscono uno stress persistente in allungamento.
Tutti i muscoli della zona n. 4 hanno un evidente collegamento con le funzioni primordiali del succhiare, del mordere del digrignare i denti e sono quindi connessi alle forme di auto espressione base e alle emozioni di rabbia e aggressività. Un controllo (o un’inibizione emotiva atavica di quelle funzioni primordiali) di tali emozioni comporta una conseguente contrattura di questi muscoli.

Gli effetti sulla qualità e sull’equilibrio della nostra voce sono evidenti.

Vorrei fare osservare come tale mappa anatomica delle contratture (e la sottostante chiave di lettura bioenergetica) trovi riscontro nel sistema indiano dei chakra.
Nella gola (e nella parte posteriore del collo quasi a contatto con la nuca) tale sistema di pensiero colloca il quinto chakra.
Come noto, si tratta di un vortice energetico deputato all’espressione di sé; alla comunicazione e la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e scelte. Il suo aspetto posteriore (quello collocabile tra nuca e collo) secondo la concezione ayurvedica è il collettore delle informazioni ambientali e la fucina delle convinzioni interiorizzate con riguardo alla nostra assertività.
E’ sorprendente come i due sistemi (bioenergetico e ayurvedico) arrivino alle medesime deduzioni!

Come andare a operare su tale corazza per liberare l’espressione vocale?

Personalmente ritengo utile applicare, in via preliminare, un protocollo di manovre che mirino a mobilizzare il diaframma e il cingolo scapolare e favoriscano il rilassamento dei piccoli muscoli obliqui e retti che collegano le prime due vertebre cervicali all’occipite.
Sono altresì utili pressioni volte ad allentare la tensione della mandibola, ad esempio lungo il decorso dei pterigoidei (sotto il massetere), praticate con attenzione e perizia per non danneggiare né la capsula articolare della mandibola né le limitrofe ghiandole parotidee.

Ciò però richiede l’intervento di un esperto e non può essere praticato da soli.

Che fare allora come auto esercizio?

Innanzitutto occorre che prendiate consapevolezza di dove si annidano le vostre tensioni e partendo da tale acquisizione cominciare ad allentarle.

E un lavoro progressivo, lungo e ricorrente che potrete sperimentare, a seconda delle circostanze, in diverse posizioni (sdraiati, seduti o in piedi).

Allora cominciate con l’ascoltare il vostro respiro, senza tentare di alterarlo; è sufficientemente addominale? Riuscite a percepirne la naturale spinta delle viscere addominali verso il basso (deve trattarsi di un movimento ampio ma naturale non devono essere i muscoli addominali che si protendono attivamente all’infuori)? Se si bene, il vostro diaframma è sufficiente libero altrimenti nessun giudizio.
Sintonizzatevi sul vostro respiro: magari da sdraiati supini mettete una mano sotto l’ombelico e provate rilassatamente a percepire l’addome che si abbassa a ogni ispirazione.
A ogni espirazione provate a percepire le vostre scapole che scendono impercettibilmente verso i glutei (non dev’essere un movimenti attivo, muscolare, ma un semplice lasciar andare).
 Nelle Upanishad – raccolta di testi sacri indiani – esiste un mantra “Ham so” (la cui funzione non è il caso di approfondire qui) il cui suono è ritenuto onomatopeico del ritmo respiratorio. Ecco, respiriamo naturalmente focalizzando la nostra attenzione sui suoni (sottili) prodotti dall’ispirazione e dall’espirazione. Proviamo anche a sentire a ogni ispirazione e a ogni espirazione il battito cardiaco. Lasciamoci cullare dal nostro ritmo respiro-battito.

Percepiamo la tensione esistente a livello delle scapole e delle clavicole, fate delle lente rotazioni avanti e indietro e poi lasciate andare, cercate di stare morbidi e portate l’attenzione sulla sommità delle spalle all’acroniom (la “bozzetta” ossea le spalle e pensate di lasciarle andare mentre immaginate che si “apra” impercettibilmente l’articolazione tra clavicole e sterno).
Nella tradizione sciamanica Hawaiana (Huna) si enuncia, tra l’altro, un principio che dice: “l’energia fluisce dove va l’attenzione”. Sto facendo approfondimenti per ravvisarne conferma nei meccanismi neurofisiologici del nostro cervello, ma so, empiricamente, che è profondamente vero!
E allora: Non dovrete far altro che sentire amorevolmente quella parte del vostro corpo che cercate di rilassare.
Comprimete le labbra tra loro e poi rilassatele, passate la vostra lingua delicatamente su di loro; giocate con esse (come fanno le donne per sistemare il rossetto).

Ciò vale anche per la mandibola: fate prima un esercizio attivo di delicata apertura e chiusura della bocca; siate dolci con voi stessi.
Provate a far scendere delicatamente la mandibola cercando di portare la consapevolezza sul movimento del muscolo omoioideo che collega l’interno della mandibola all’osso iode, isolate la percezione di tale micromovimento. E poi cercate di lasciate andare. Restate a bocca delicatamente semichiusa. Abbandonate la mandibola alla forza di gravità e percepite come i legamenti che collegano la mandibola all’occipite si allungano dolcemente.
Fate delle rotazioni delicate con la testa a destra e sinistra, delle ancor più delicate estensioni del collo e poi flettetelo a destra e sinistra.
Giocate con la vostra lingua, estraendola tesa da dentro a fuori a bocca aperta ma senza far oscillare la mandibola. E poi passatela, a bocca chiusa, sulla parete interna delle vostre guance, in un verso e poi nell’altro.
Portate ora l’attenzione sulla laringe (è il tubo cartilagineo che negli uomini si trova in corrispondenza del ‘pomo di adamo’); fate delle ispirazioni forzate: sentite come scende nel collo?
Il contrario (la laringe sale) quando fate delle espirazioni forzate, c’è la sensazione di nodo alla gola? Deglutite e muovete nuovamente il collo, flettendolo a destra e sinistra, e sentite come va.
Tutta la muscolatura della laringe riceve innervazione dal nervo vago. Siccome si tratta anche di un’innervazione sensitiva la mobilizzazione contribuirà, per via riflessa, a stimolare  il sistema parasimpatico, favorendo  un rilassamento generale.
Fate un’ispirazione naturale ed espirando - con tono di voce rilassato e naturale, volume medio e bocca ben articolata  - emettete una A.
Ripetete per tutte le vocali. Riuscite a percepire per le singole vocali una variazione di frequenza (intensità del suono)?
Riuscite a isolare dove risuona l’emissione della vocale nella laringe e nelle strutture sovrastanti (bocca, fosse nasali..).
Provate a ripetere l’esercizio poggiando due dita sulle vertebre cervicali tra C4 e C6. Sentite come la A vibra più nella parte anteriore della laringe? Mentre la E alla base della lingua e la I più verso il palato molle?
Fatelo più volte. Giocate con la vostra voce.

Vi vengono suoni gutturali o piuttosto strilli? fateli!!

E poi usate gli arpeggi (MA ME MI MO MU) salite di un’ottava, aprite il cuore!
E poi cantate: canzoni che vi piacciono e che conoscete. Osate!
Lasciate che il suono, senza forzarlo, arrivi da mezzo al petto; sentite che l’aria che fa vibrare le corde vocali producendo il suono metta in connessione torace e bocca.
Sperimentate questo senso di unità!
Buoni vocalizzi a tutti!

Il vostro Lucio

sabato 19 novembre 2011

La malattia: da una visione olistica a un approccio mistico.


Cari amici Olistici,
eccomi di nuovo a voi per un repentino aggiornamento all’ultimo post (Malattia: accidente esterno o fenomeno “riparatore”?).
L’occasione è fornita dalla notizia di ieri circa indagini della Procura di Roma sulla morte di 3 giovani persone, per assunzione di un farmaco antiobesità.
Ciò che ha richiamato la mia attenzione è stata la facilità con cui, nella fattispecie, alcuni centri estetici (!!) (e compiacenti medici c.d. “responsabili”) hanno prescritto farmaci già dichiarati pericolosi dalla Ministero della Salute senza – cosi almeno riportava la notizia televisiva – aver informato i pazienti sulla tipologia ed effetti collaterali del farmaco!

Ecco un esempio, purtroppo drammatico, dell’uso indiscriminato e disinvolto dei farmaci, di cui parlavo ieri.

Il mio invito (soprattutto in casi come questi di lieve obesità) è di rimettere se stessi al centro delle proprie scelte di salute e non guardare alla guarigione come a un risultato esterno da sé, da delegare incondizionatamente a qualcun altro.
Amiamo invece il nostro corpo!
Sentiamone la comunione con il “Tutto”: con la forza del Sole; con la bellezza e la potenza della natura che ci circonda.
Torniamo ad ascoltarne i movimenti: da quelli di deambulazione ai ritmi interni del respiro, del battito cardiaco, dei borborigmi della peristalsi.
Tale ascolto è di per sé meditazione!
Siamo stati congegnati per essere “sistema autosufficiente” dal lato della salute e organismo in perfetto e perpetuo scambio con ogni piccola modificazione dell’ambiente che ci circonda.

Sentiamo la bellezza, la completezza, il sincronismo del nostro organismo.

Ciò è ancora più facile quando non siamo fiaccati nello spirito dalla sofferenza della malattia; e allora giochiamo di prevenzione. Riprendiamoci l’ascolto della salute!

Voglio cogliere l’occasione per un’integrazione al post di ieri in cui ho parlato del significato “terapeutico” della malattia.

Consentitemi di palesare qui una mia personale visione mistica, che va oltre la strumentalità della malattia, nel senso cui ho fatto cenno ieri, e ne considera invece gli aspetti più “ontologici”.

Ritengo in proposito che tutto l’Universo costituisca un unico grande organismo.

Esseri viventi, minerali, montagne sono tutti costituiti  della stessa materia; sono dunque diverse espressioni fenomeniche dello stesso principio.
Cambia “l’assemblaggio”; varia l’organizzazione funzionale della materia; muta la sua composizione chimica, magari lo stato di aggregazione, ma i “mattoni” costituenti sono gli stessi.
Solo la mente, per ovvie ragioni, ci fa leggere questa realtà come eterogenea, abbacinati come i prigionieri della caverna di Platone.

Questa concezione affonda le radici in diverse tradizioni di pensiero arcaico e primitivo.

Gli echi di una simile visione (non voglio parlare di prove, in quanto ciò richiedere l’effettuazione di esperimenti scientifici mirati) si riscontrano oggi in tante asserzioni della Scienza ufficiale.
Solo per citare alcuni esempi, sembrano andare in questa direzione:
Il considerare le quattro forze fondamentali dell’Universo (gravità; elettromagnetismo; forza nucleare forte; forza nucleare debole) come espressioni distinte di un’unica forza;
l’assunto di De Broglie, secondo cui la materia può essere in modo equivalente intesa in termini di onde o particelle;
i recentissimi esperimenti sulla velocità dei “neutrini”.

Se ciò è vero, allora, la nostra malattia accade perché si è prodotto qualcos’altro in qualche altro punto di questo organismo integrato. La nostra malattia è funzionale all’equilibrio del Tutto.

Non è la visione cristiana della sofferenza “offerta”, ma è un principio di compensazione energetica.

Tale convinzione non fa dell’ammalato una sorta di “capro espiatorio” cosmico; anzi dovrebbe essere di conforto poiché il Tutto, di cui ognuno di noi è espressione e replica, tende al suo (e quindi al nostro) bene.
In quanto parte che replica e condivide la natura del Tutto, siamo essere perfetti eterni e votati alla Gioia!!

La malattia è allora il messaggero inviatoci in quel momento per integrare e far esprimere appieno  questa nostra natura divina dentro l’esperienza umana.
Ognuno di noi è infatti espressione di una dimensione divina e una umana.
La prima è la nostra replica del Tutto che esiste ed è eterno, la seconda è rappresentata dall’Io senziente , dalla sue illusioni, dalla mente raziocinante, dualistica e volitiva.
La malattia viene a integrare tali due dimensioni; consente la crescita spirituale della dimensione umana poiché interviene laddove la dimensione umana è, nonostante le nostre apparenti intenzioni, di intralcio alla piena espressione della nostra natura divina.
 Per questo interviene la malattia, non come punizione, ma come fenomeno riparatore che vuole ricostituire quella connessione cui la nostra dimensione umana sta diventando di ostacolo (con comportamenti, stili di vita, esposizione a ogni possibile agente “patogeno” di squilibrio).

venerdì 18 novembre 2011

La malattia: accidente esterno o fenomeno "riparatore"?

La trattazione dei rimedi naturali, considerati alternativi o integrativi ai percorsi terapeutici offerti dalla medicina ufficiale, impone una preventiva riflessione sull’accezione condivisa di malattia.

La malattia può essere genericamente definita come “un’alterazione dello stato fisiologico e psicologico dell'organismo che, riducendone e/o alterandone le funzionalità normali, comporta  uno stato generale di sofferenza o comunque di assenza di benessere.”

Tutti noi abbiamo fatto esperienza, in forme e tempi diversi, di questo stato dell’esistere.

E’ una condizione che investe diversi aspetti della persona (fisici, psicologici, socio-relazionali) e che può quindi essere indagata da diverse prospettive.

Il mio intento è di analizzarla in termini di meta-concetto, una sorta di “idea platonica”, che consenta di definirne caratteristiche e significati a prescindere dalla specifica declinazione patologica che la malattia può di volta in volta assumere.

La malattia, infatti, sia essa causata da un agente esterno (virus o batterio; radiazioni e altre fenomeni fisici) o da evento traumatico, assolve sempre una medesima funzione che è quella di garantire all’organismo, come sistema, di mantenere il suo equilibrio omeostatico al variare delle condizioni ambientali (interne o esterne), con l’unico scopo di garantirci la sopravvivenza.

Per chiarire meglio questo concetto occorre preliminarmente soffermarci sul significato di salute – concetto speculare a quello di malattia – e, in particolare, sulla caratteristica conservativa e auto-generativa degli organismi viventi.
La vita, infatti, rappresenta una realtà in continuo divenire. Mutevole nella sua continua struttura molecolare e nella sua organizzazione funzionale.
Basti ad esempio riflettere sul rinnovamento cellulare; sulla replicazione del DNA che per ogni individuo ha luogo circa ogni 21giorni; sul fatto che ogni anno 1/5 dei minerali della nostra matrice ossea viene integralmente sostituito.

Tutto questo fenomeno (risultato di una lunga evoluzione che fa di ognuno di noi il portato biologico delle esperienze dei nostri antenati, a partire da quelli più ancestrali) è governato da un unico principio: quello dell’omeostasi che tende a garantire la permanenza delle nostre caratteristiche strutturali e funzionali al variare delle condizioni ambientali in cui è “immerso” il nostro organismo.

Nell’ambito di questa sapienza arcaica e codificata nel nostro essere, che trascende la conoscenza esperibile con il raziocinio, la malattia si configura come meccanismo compensativo e riparatore in grado di garantirci il ripristino di una condizione ottimale di salubrità.
E’ sempre così!

La malattia non è “il corpo che si guasta”; ma è la risposta compensatoria del corpo a uno “stimolo” che in quel sistema ha introdotto squilibrio.

Che ripercussioni terapeutiche e diagnostiche ha una simile concezione della malattia?
Enormi!
Vuol dire che dobbiamo allora lasciare che la malattia accada, rifiutando ogni tipo di cura e aspettare indifferenti o inermi che essa svolga il suo compito?
Non propriamente!
Vuol dire però piuttosto ascoltarla, “sentirla” come parte ed espressione di noi stessi, come evento autodeterminato dall’organismo che temporaneamente ne altera le funzionalità “normali”  per il perseguimento di uno scopo.

La malattia non è un evento accidentale che capita fuori da noi per “sfiga”, è invece una risposta complessiva e complessa a uno squilibrio che si è determinato nel nostro sistema “sapiente”.
Questo – sebbene sul piano psicologico sia difficile da comprendere e attuare per la persona ammalata – è tuttavia fondamentale.
Dissento da espressioni come “ha sconfitto il cancro”. No!
 Non siamo di fronte ad un nemico esterno, tale concezione paradossalmente ci agevola il fardello psicologico ma è l’impostazione sbagliata.

In verità l’approccio richiesto è purtroppo molto più difficoltoso e complicato.

Vuol dire “arrendersi” alla malattia come reazione corporea, tentare di ascoltarla, farne l’opportunità “terapeutica” che ci fa uscire risanati e più forti, in quanto ci ha riportato dentro noi ci ha consentito di conoscere meglio la nostra storia personale.  

La malattia, in questa accezione, è sempre uno stato temporaneo!

Esso non va confuso pertanto con: 1) alterazioni definitive e permanenti delle normali funzionalità; 2) effetti del processo d’invecchiamento.
1) I postumi permanenti (penso ad esempio alla disabilità permanente successiva a una frattura ossea; o ai deficit causati da un eventuale ictus), infatti, non sono la malattia in sé, ma soltanto l’espressione di un nuovo equilibrio “sub ottimale” che si verifica laddove la malattia non ha svolto compiutamente il suo ruolo.
Nel caso dell’ictus, ad esempio, la malattia è costituita dalla risposta nella regolazione della pressione arteriosa con cui l’organismo ha cercato di reagire alla variazione nel lume dei vasi (squilibrio del sistema) indotta magari da uno stile di vita o da certa familiarità vascolare. Il residuo deficit funzionale permanente non è più la malattia, ma un nuovo equilibrio non propriamente ottimale.
Lo stesso equilibrio “sub ottimale” si verifica nella quasi totalità delle patologie psichiatriche o, più in generale, delle disfunzionalità comportamentali: qui la malattia serve a rimuovere un vissuto doloroso e inconsapevolmente inaccettabile, serve a garantire il raggiungimento di una forma (precaria e disfunzionale) di equilibrio personale e relazionale.
 A maggior ragione anche in questi casi la malattia è un alleato prezioso che viene a indicarci dove nasce e come agisce lo “stimolo” deleterio.
2) gli effetti del processo d’invecchiamento (ostepenia; osteoporosi, reumatismi vari, alterazioni del sistema di regolamento termico; alterazioni ormonali) non sono malattie; ma i normali effetti del ciclo vitale della materia nella sua espressione vivente!


Grazie a questo tipo di approccio il decorso stesso di ogni malattia sarà più rapido e benevolo.


Questo ha indubbie ripercussioni sul piano terapeutico:

significa stimolare il paziente alla propriocezione; significa promuoverne l’ascolto, incoraggiarlo ad esprimere le paure e i desideri che la malattia ha fatto riaffiorare.
Significa accompagnarlo e “contenerlo” dentro un vissuto doloroso; instaurando con la persona un’alleanza terapeutica che lo fa sentire protetto e assistito;
 significa inquadrare il paziente per la sua storia clinica e personale complessiva; significa guardare alla persona non come semplice portatrice “impersonale” di sintomo ma come complessa entità psico-fisica; vuol dire evitare l’uso immediato e disinvolto di farmaci dai mille (e spesso non quantificabili neanche ex post) effetti collaterali che alterano la perfetta chimica del nostro corpo e interferiscono, scombinandolo, con quel complesso sistema riparatore che è la malattia, nel cui ambito il sintomo (che il farmaco va a contrastare) è soltanto espressione di un strumento  intermedio  di auto-guarigione .

La concezione e i protocolli terapeutici adottati dalla nostra medicina ufficiale parlano purtroppo un'altra lingua.

Oggi la nostra medicina, che presenta punte di eccellenza diagnostica, ha dimenticato l’ammalato.
L’esasperata specializzazione ha compartimentalizzato le diagnosi, ha spostato il focus sullo specifico sintomo e non sulla storia personale.
Abbagliati da un modus vivendi che ci vuole efficienti e veloci, sia i medici (vittime di un’idea di marketing che li vuole risolutori) sia noi pazienti privilegiamo le guarigioni rapide e facili.
Siamo convinti che guarigione significhi remissione dei singoli sintomi e cediamo alle lusinghe dell’uso generalizzato e indiscriminato di ogni tipo di farmaci.
Le ragioni di mercato dell’industria farmaceutica hanno fatto il resto.
Credo sia esperienza condivisa da chiunque di noi abbia sofferto di ipertensione arteriosa vedersi propinare farmaci beta-bloccanti.
Sono farmaci che inibiscono i recettori della noradrenalina e quindi impediscono l’aumento della gittata cardiaca.
Ma quanti dei vostri medici si sono chiesti da cosa nascesse quella sovra-produzione di noradrenalina? Vi hanno chiesto, per caso, di parlargli dei vostri conflitti? Delle frustrazioni e della ansie di quel vostro momento di vita? Probabilmente no!
Ma nemmeno si saranno premurati di accertarsi del vostro livello di efficienza renale!
La remissione del sintomo è il solo risultato che spesso noi stessi ammalati chiediamo. Quasi sempre è ciò che ci viene offerto  dal nostro sistema medico.

Tale sistema tuttavia comporta da parte della persona colpita dalla malattia una totale “abdicazione” di ogni potere decisionale, di ogni facoltà sensitiva e di ogni chance di effettiva salute.

Può sembrare più facile; ma ci depriva della possibilità offerta dalla malattia di capire, attraverso l’espressione del corpo, ciò che è più utile al nostro benessere. Ci impedisce di scorgere lo stimolo offensivo (sia esso emozionale, di stile di vita, viro-batterico, ecc) contro cui la malattia tenta di combattere a nostro esclusivo vantaggio.

 E’ come se consegnassimo il nostro sistema vitale – chiavi in mano - a qualcun altro perché non funziona più bene e non sappiamo come farlo tornare alle sue condizioni “oggettive” di efficienza. (alla stregua di quanto accade per l’automobile: che è “altro e al di fuori” dal nostro essere).

Ognuno di voi che sta leggendo, e ha sperimentato le difficoltà della malattia, conosce bene come tale approccio clinico sia spersonalizzante e faccia sentire in balia di medici spesso indifferenti, rendendoci impotenti, spaventati e SOLI!

 La spossatezza fisica e psicologica che accompagna la malattia non rende agevole contattare le nostre più profonde risorse rigenerative, ma è proprio qui che dovrebbe intervenire il supporto del medico; è qui che dovrebbe operare quell’alleanza terapeutica a cui accennavo sopra.

Questo non è tuttavia semplice; i nostri dottori escono da brillanti Università, sono degli specialisti (ancor più dei carrieristi!!) ma mancano dell’esperienza effettiva della malattia, molti di loro non hanno mai attraversato il paesaggio di sofferenza che conduce fino a sé. E’ questo che priva loro della forza “sciamanica” di cui necessita l’alleanza terapeutica.

Scrive in proposito il dott. Dahlke: “ In molte tribù l’aspirante sciamano si augura la malattia capace di iniziarlo e di introdurlo in nuovi campi di esperienze. Sulla base di questo principio accade, talvolta, che un guaritore sia autorizzato a trattare soltanto quelle malattie che egli stesso ha sperimentato personalmente con l’anima e il corpo. Se è vero che il guaritore è la guida delle anime attraverso i mondi interiori, e se è vero che il suo atteggiamento è fondamentale, è necessario che abbia già conosciuto il territorio in cui guiderà i viaggiatori a lui affidati.”

Rudiger Dahlke è oggi uno dei più autorevoli esperti in tema di valore simbolico della malattia[1].
Si tratta in realtà di un filone di ricerca che parte da lontano e si pone come successiva evoluzione di pensiero della Psicosomatica[2]. Infatti già autori come Groddeck (1917) hanno interpretato la malattia organica come espressione  simbolica di processi psichici; e più tardi  Helen  Dunbar e Franz Alexander (1934) hanno ritenuto il sintomo psicosomatico generato da emozioni inappropriate alla situazione o non adeguatamente espresse.

Personalmente ho grande stima per i pregevoli lavori del dott. Dahlke e per la sua concezione unitaria dell’individuo (E’ sua la bellissima frase: “La medicina tradizionale infatti si limita al corpo e nel campo delle “riparazioni” raggiunge spesso risultati eccezionali. Essa ha di recente ceduto la cura dell’anima alla psicologia e, prima ancora, quella dello spirito alla teologia”).
Ritengo però che non sia possibile tracciare una “grammatica”, universale ed esaustiva, del valore simbolico della malattia perché ciò significherebbe negarne la valenza specifica, personale e multifattoriale.
In ogni caso penso che la persona malata non possa e non debba ricorrere da sola alla ricerca di significati della malattia, perché questo potrebbe comportare il rischio di spostare la “lettura” della malattia in un ambito mentale (nel quale è facile cadere nella rete delle idealizzazioni dell’Io,  dei significati mistici o peggio dei sensi di colpa) e allontanarci da quella dimensione del “qui e ora”, del “presente in divenire”, come unica realtà esistente a cui la malattia costantemente tenta di riportarci!



[1] Medico austriaco specializzato in terapie naturali e psicoterapia.  È autore di numerosi libri riguardanti il rapporto tra malattia, psiche e autocoscienza. (“La malattia come simbolo”; “Malattia linguaggio dell’anima”; “Il corpo specchio dell’anima”; “La saggezza del corpo”; “Malattia e destino”. Tutti pubblicati in Italia da Edizioni Mediterranee.).
[2] La Psicosomatica si è sviluppata agli inizi dell’Ottocento (vedi le teorie di Johann Christian Heinroth e, più compiutamente, di Friedrich Groos) e interpreta le malattie come manifestazione somatica di emozioni e passioni negative, (configurandosi al momento della sua origine come nucleo antesignano del movimento psicoanalitico).  Fu definitivamente avversata negli anni 60 del Novecento come inutile tentativo di inquadrare condizioni morbose per le quali non era stata ancora individuata una spiegazione scientifica.

sabato 29 ottobre 2011

Le Discipline Olistiche: in bilico tra Mito e Pregiudizio


Cari Lettori,
siate i benvenuti! Questo è il post inaugurale del mio blog.
Come anticipato nel titolo, il blog vuole proporsi come una sorta di portale divulgativo delle varie discipline olistiche. L’intento può apparire di certo pretenzioso e, per alcuni versi, poco innovativo. Non è così!
Sono io il primo a riconoscere che tanto si è scritto e detto intorno a questo universo composito; personalmente, non ritengo neanche significativo tratteggiare considerazioni generali (che finirebbero per essere soltanto generiche!) valide indifferentemente per tutte le discipline ricomprese sotto la medesima etichetta.

Lo scopo vuole essere, invece, quello di promuovere uno spazio di discussione collettiva con un invito esplicito a tutti coloro che a vario titolo si occupano di rimedi, terapie e “visioni” alternative.
Sarete voi che – attraverso i temi che vorrete propormi espressamente di volta in volta e mediante i commenti ai post pubblicati su mia iniziativa – costituirete il motore fecondo del sito.
E’ questo il senso dell’allusione al blog come “bottega medievale”.

E’ mia intenzione mantenere costante nella trattazione degli argomenti affrontati un leit-motif: aiutare la diffusione della conoscenza di questo comparto debellando due possibili insidie,  quelle che nel titolo ho denominato “la deriva New age” e “lo scetticismo di una sottocultura scientifica di massa”.

Nel definirle non voglio mancare di rispetto a posizioni di pensiero diverse dalla mia; intendo solo affermare che oggi le discipline olistiche - come discipline complementari agli approcci terapeutici occidentali - non vengono osteggiate apertamente dal clinico o dallo scienziato conclamato dalla cultura dominante (sebbene questi, spesso a torto, ritenga di avere cose più serie a cui pensare). Talvolta anzi recenti acquisizioni scientifiche, nel campo dell’astronomia, della fisica quantistica e della biologia molecolare, sembrano avallare alcuni saperi trasmessi in seno a culture orientali e ricondurne la “dimostrabilità” nell’alveo del pensiero occidentale.

I veri detrattori che lavorano costantemente e sinergicamente a detrimento della diffusione dei c.d. “rimedi olistici” sono invece i due aspetti che ho individuato e che costituiscono
Le due facce della stessa medaglia chiamata  “pressapochismo” concettuale.

Vediamoli più in dettaglio:
la deriva New age si verifica quando ci si fa interpreti di saperi complessi, antichi e articolati in un modo spesso grossolano e didascalico.
Gli scaffali delle librerie sono ormai traboccanti di una nutrita (e spesso ridondantemente “replicata”) letteratura in proposito.
Proprio alcuni giorni fa mi sono imbattuto in un testo sui chakra in cui si descriveva - con dovizia di particolari e annessi schemi disegnati - il diverso significato diagnostico dei vari movimenti del pendolino utilizzabile nella lettura dei chakra.
Personalmente ritengo che la lettura dei chakra con il pendolo possa fornire preziose indicazioni sullo stato energetico di una persona: il pendolo, infatti, compendia l’incontro delle “capacità radianti” del soggetto esaminato (in termini di campo elettromagnetico e gravitazionale) con quelle “riceventi” del soggetto che utilizza il pendolo.
Questo nel suo empirismo è “scientifico”.
Altro è asserire con grottesca perentorietà che se il pendolo fa tre giri a sinistra significa X mentre se ne fa 4 vuol dire Y;
lo scetticismo di una sottocultura scientifica di massa è il rovescio della stessa medaglia, o se vogliamo “il complemento ad 1”, del primo aspetto.
Esso si verifica in tutti in casi in cui non addetti ai lavori, sulla base di una presunta cultura scientifica (spesso da scuola media inferiore,  che magari ignora tutti gli sviluppi della conoscenza scientifica dal post Einstein in poi..),  bollano tutti gli argomenti di cui dibattiamo come pregiudizi in cui…”non credono”.

Per debellare questi due nemici dobbiamo riscoprire con meticolosità scientifica i sistemi di pensiero e di conoscenza arcaica e complessa in cui affondano le loro radici i saperi olistici.
Si tratta, talvolta, di conoscenze sviluppatesi nell’ambito della nostra cultura dominante occidentale e poi nel prosieguo abbandonate (come nel caso dell’Aromaterapia, le cui origini si perdono nella notte dei tempi,  che ha trovato poi una sua sistematizzazione scientifica in seno al mondo accademico francese all’ inizio del XX secolo); o piuttosto di conoscenze che trovano le loro coordinate culturali in sistemi di pensiero diversi, quali  quelli orientali.

La sfida sarà di volta in volta tentare un approccio sincretico – senza violare o mischiare indebitamente i diversi principi cardine dei vari sistemi culturali di riferimento – tra le varie forme di conoscenza rimettendo al centro l’Uomo, quale complesso sistema integrato fino all’inimmaginabile con tutto ciò che esiste.

Confido nel vostro entusiasmo e nei vostri appassionati feed back!!
Lucio Hush