"NULLA È MENO SCIENTIFICO DI NEGARE CIÒ CHE NON SI SPIEGA...." Jean Valnet

sabato 19 novembre 2011

La malattia: da una visione olistica a un approccio mistico.


Cari amici Olistici,
eccomi di nuovo a voi per un repentino aggiornamento all’ultimo post (Malattia: accidente esterno o fenomeno “riparatore”?).
L’occasione è fornita dalla notizia di ieri circa indagini della Procura di Roma sulla morte di 3 giovani persone, per assunzione di un farmaco antiobesità.
Ciò che ha richiamato la mia attenzione è stata la facilità con cui, nella fattispecie, alcuni centri estetici (!!) (e compiacenti medici c.d. “responsabili”) hanno prescritto farmaci già dichiarati pericolosi dalla Ministero della Salute senza – cosi almeno riportava la notizia televisiva – aver informato i pazienti sulla tipologia ed effetti collaterali del farmaco!

Ecco un esempio, purtroppo drammatico, dell’uso indiscriminato e disinvolto dei farmaci, di cui parlavo ieri.

Il mio invito (soprattutto in casi come questi di lieve obesità) è di rimettere se stessi al centro delle proprie scelte di salute e non guardare alla guarigione come a un risultato esterno da sé, da delegare incondizionatamente a qualcun altro.
Amiamo invece il nostro corpo!
Sentiamone la comunione con il “Tutto”: con la forza del Sole; con la bellezza e la potenza della natura che ci circonda.
Torniamo ad ascoltarne i movimenti: da quelli di deambulazione ai ritmi interni del respiro, del battito cardiaco, dei borborigmi della peristalsi.
Tale ascolto è di per sé meditazione!
Siamo stati congegnati per essere “sistema autosufficiente” dal lato della salute e organismo in perfetto e perpetuo scambio con ogni piccola modificazione dell’ambiente che ci circonda.

Sentiamo la bellezza, la completezza, il sincronismo del nostro organismo.

Ciò è ancora più facile quando non siamo fiaccati nello spirito dalla sofferenza della malattia; e allora giochiamo di prevenzione. Riprendiamoci l’ascolto della salute!

Voglio cogliere l’occasione per un’integrazione al post di ieri in cui ho parlato del significato “terapeutico” della malattia.

Consentitemi di palesare qui una mia personale visione mistica, che va oltre la strumentalità della malattia, nel senso cui ho fatto cenno ieri, e ne considera invece gli aspetti più “ontologici”.

Ritengo in proposito che tutto l’Universo costituisca un unico grande organismo.

Esseri viventi, minerali, montagne sono tutti costituiti  della stessa materia; sono dunque diverse espressioni fenomeniche dello stesso principio.
Cambia “l’assemblaggio”; varia l’organizzazione funzionale della materia; muta la sua composizione chimica, magari lo stato di aggregazione, ma i “mattoni” costituenti sono gli stessi.
Solo la mente, per ovvie ragioni, ci fa leggere questa realtà come eterogenea, abbacinati come i prigionieri della caverna di Platone.

Questa concezione affonda le radici in diverse tradizioni di pensiero arcaico e primitivo.

Gli echi di una simile visione (non voglio parlare di prove, in quanto ciò richiedere l’effettuazione di esperimenti scientifici mirati) si riscontrano oggi in tante asserzioni della Scienza ufficiale.
Solo per citare alcuni esempi, sembrano andare in questa direzione:
Il considerare le quattro forze fondamentali dell’Universo (gravità; elettromagnetismo; forza nucleare forte; forza nucleare debole) come espressioni distinte di un’unica forza;
l’assunto di De Broglie, secondo cui la materia può essere in modo equivalente intesa in termini di onde o particelle;
i recentissimi esperimenti sulla velocità dei “neutrini”.

Se ciò è vero, allora, la nostra malattia accade perché si è prodotto qualcos’altro in qualche altro punto di questo organismo integrato. La nostra malattia è funzionale all’equilibrio del Tutto.

Non è la visione cristiana della sofferenza “offerta”, ma è un principio di compensazione energetica.

Tale convinzione non fa dell’ammalato una sorta di “capro espiatorio” cosmico; anzi dovrebbe essere di conforto poiché il Tutto, di cui ognuno di noi è espressione e replica, tende al suo (e quindi al nostro) bene.
In quanto parte che replica e condivide la natura del Tutto, siamo essere perfetti eterni e votati alla Gioia!!

La malattia è allora il messaggero inviatoci in quel momento per integrare e far esprimere appieno  questa nostra natura divina dentro l’esperienza umana.
Ognuno di noi è infatti espressione di una dimensione divina e una umana.
La prima è la nostra replica del Tutto che esiste ed è eterno, la seconda è rappresentata dall’Io senziente , dalla sue illusioni, dalla mente raziocinante, dualistica e volitiva.
La malattia viene a integrare tali due dimensioni; consente la crescita spirituale della dimensione umana poiché interviene laddove la dimensione umana è, nonostante le nostre apparenti intenzioni, di intralcio alla piena espressione della nostra natura divina.
 Per questo interviene la malattia, non come punizione, ma come fenomeno riparatore che vuole ricostituire quella connessione cui la nostra dimensione umana sta diventando di ostacolo (con comportamenti, stili di vita, esposizione a ogni possibile agente “patogeno” di squilibrio).

venerdì 18 novembre 2011

La malattia: accidente esterno o fenomeno "riparatore"?

La trattazione dei rimedi naturali, considerati alternativi o integrativi ai percorsi terapeutici offerti dalla medicina ufficiale, impone una preventiva riflessione sull’accezione condivisa di malattia.

La malattia può essere genericamente definita come “un’alterazione dello stato fisiologico e psicologico dell'organismo che, riducendone e/o alterandone le funzionalità normali, comporta  uno stato generale di sofferenza o comunque di assenza di benessere.”

Tutti noi abbiamo fatto esperienza, in forme e tempi diversi, di questo stato dell’esistere.

E’ una condizione che investe diversi aspetti della persona (fisici, psicologici, socio-relazionali) e che può quindi essere indagata da diverse prospettive.

Il mio intento è di analizzarla in termini di meta-concetto, una sorta di “idea platonica”, che consenta di definirne caratteristiche e significati a prescindere dalla specifica declinazione patologica che la malattia può di volta in volta assumere.

La malattia, infatti, sia essa causata da un agente esterno (virus o batterio; radiazioni e altre fenomeni fisici) o da evento traumatico, assolve sempre una medesima funzione che è quella di garantire all’organismo, come sistema, di mantenere il suo equilibrio omeostatico al variare delle condizioni ambientali (interne o esterne), con l’unico scopo di garantirci la sopravvivenza.

Per chiarire meglio questo concetto occorre preliminarmente soffermarci sul significato di salute – concetto speculare a quello di malattia – e, in particolare, sulla caratteristica conservativa e auto-generativa degli organismi viventi.
La vita, infatti, rappresenta una realtà in continuo divenire. Mutevole nella sua continua struttura molecolare e nella sua organizzazione funzionale.
Basti ad esempio riflettere sul rinnovamento cellulare; sulla replicazione del DNA che per ogni individuo ha luogo circa ogni 21giorni; sul fatto che ogni anno 1/5 dei minerali della nostra matrice ossea viene integralmente sostituito.

Tutto questo fenomeno (risultato di una lunga evoluzione che fa di ognuno di noi il portato biologico delle esperienze dei nostri antenati, a partire da quelli più ancestrali) è governato da un unico principio: quello dell’omeostasi che tende a garantire la permanenza delle nostre caratteristiche strutturali e funzionali al variare delle condizioni ambientali in cui è “immerso” il nostro organismo.

Nell’ambito di questa sapienza arcaica e codificata nel nostro essere, che trascende la conoscenza esperibile con il raziocinio, la malattia si configura come meccanismo compensativo e riparatore in grado di garantirci il ripristino di una condizione ottimale di salubrità.
E’ sempre così!

La malattia non è “il corpo che si guasta”; ma è la risposta compensatoria del corpo a uno “stimolo” che in quel sistema ha introdotto squilibrio.

Che ripercussioni terapeutiche e diagnostiche ha una simile concezione della malattia?
Enormi!
Vuol dire che dobbiamo allora lasciare che la malattia accada, rifiutando ogni tipo di cura e aspettare indifferenti o inermi che essa svolga il suo compito?
Non propriamente!
Vuol dire però piuttosto ascoltarla, “sentirla” come parte ed espressione di noi stessi, come evento autodeterminato dall’organismo che temporaneamente ne altera le funzionalità “normali”  per il perseguimento di uno scopo.

La malattia non è un evento accidentale che capita fuori da noi per “sfiga”, è invece una risposta complessiva e complessa a uno squilibrio che si è determinato nel nostro sistema “sapiente”.
Questo – sebbene sul piano psicologico sia difficile da comprendere e attuare per la persona ammalata – è tuttavia fondamentale.
Dissento da espressioni come “ha sconfitto il cancro”. No!
 Non siamo di fronte ad un nemico esterno, tale concezione paradossalmente ci agevola il fardello psicologico ma è l’impostazione sbagliata.

In verità l’approccio richiesto è purtroppo molto più difficoltoso e complicato.

Vuol dire “arrendersi” alla malattia come reazione corporea, tentare di ascoltarla, farne l’opportunità “terapeutica” che ci fa uscire risanati e più forti, in quanto ci ha riportato dentro noi ci ha consentito di conoscere meglio la nostra storia personale.  

La malattia, in questa accezione, è sempre uno stato temporaneo!

Esso non va confuso pertanto con: 1) alterazioni definitive e permanenti delle normali funzionalità; 2) effetti del processo d’invecchiamento.
1) I postumi permanenti (penso ad esempio alla disabilità permanente successiva a una frattura ossea; o ai deficit causati da un eventuale ictus), infatti, non sono la malattia in sé, ma soltanto l’espressione di un nuovo equilibrio “sub ottimale” che si verifica laddove la malattia non ha svolto compiutamente il suo ruolo.
Nel caso dell’ictus, ad esempio, la malattia è costituita dalla risposta nella regolazione della pressione arteriosa con cui l’organismo ha cercato di reagire alla variazione nel lume dei vasi (squilibrio del sistema) indotta magari da uno stile di vita o da certa familiarità vascolare. Il residuo deficit funzionale permanente non è più la malattia, ma un nuovo equilibrio non propriamente ottimale.
Lo stesso equilibrio “sub ottimale” si verifica nella quasi totalità delle patologie psichiatriche o, più in generale, delle disfunzionalità comportamentali: qui la malattia serve a rimuovere un vissuto doloroso e inconsapevolmente inaccettabile, serve a garantire il raggiungimento di una forma (precaria e disfunzionale) di equilibrio personale e relazionale.
 A maggior ragione anche in questi casi la malattia è un alleato prezioso che viene a indicarci dove nasce e come agisce lo “stimolo” deleterio.
2) gli effetti del processo d’invecchiamento (ostepenia; osteoporosi, reumatismi vari, alterazioni del sistema di regolamento termico; alterazioni ormonali) non sono malattie; ma i normali effetti del ciclo vitale della materia nella sua espressione vivente!


Grazie a questo tipo di approccio il decorso stesso di ogni malattia sarà più rapido e benevolo.


Questo ha indubbie ripercussioni sul piano terapeutico:

significa stimolare il paziente alla propriocezione; significa promuoverne l’ascolto, incoraggiarlo ad esprimere le paure e i desideri che la malattia ha fatto riaffiorare.
Significa accompagnarlo e “contenerlo” dentro un vissuto doloroso; instaurando con la persona un’alleanza terapeutica che lo fa sentire protetto e assistito;
 significa inquadrare il paziente per la sua storia clinica e personale complessiva; significa guardare alla persona non come semplice portatrice “impersonale” di sintomo ma come complessa entità psico-fisica; vuol dire evitare l’uso immediato e disinvolto di farmaci dai mille (e spesso non quantificabili neanche ex post) effetti collaterali che alterano la perfetta chimica del nostro corpo e interferiscono, scombinandolo, con quel complesso sistema riparatore che è la malattia, nel cui ambito il sintomo (che il farmaco va a contrastare) è soltanto espressione di un strumento  intermedio  di auto-guarigione .

La concezione e i protocolli terapeutici adottati dalla nostra medicina ufficiale parlano purtroppo un'altra lingua.

Oggi la nostra medicina, che presenta punte di eccellenza diagnostica, ha dimenticato l’ammalato.
L’esasperata specializzazione ha compartimentalizzato le diagnosi, ha spostato il focus sullo specifico sintomo e non sulla storia personale.
Abbagliati da un modus vivendi che ci vuole efficienti e veloci, sia i medici (vittime di un’idea di marketing che li vuole risolutori) sia noi pazienti privilegiamo le guarigioni rapide e facili.
Siamo convinti che guarigione significhi remissione dei singoli sintomi e cediamo alle lusinghe dell’uso generalizzato e indiscriminato di ogni tipo di farmaci.
Le ragioni di mercato dell’industria farmaceutica hanno fatto il resto.
Credo sia esperienza condivisa da chiunque di noi abbia sofferto di ipertensione arteriosa vedersi propinare farmaci beta-bloccanti.
Sono farmaci che inibiscono i recettori della noradrenalina e quindi impediscono l’aumento della gittata cardiaca.
Ma quanti dei vostri medici si sono chiesti da cosa nascesse quella sovra-produzione di noradrenalina? Vi hanno chiesto, per caso, di parlargli dei vostri conflitti? Delle frustrazioni e della ansie di quel vostro momento di vita? Probabilmente no!
Ma nemmeno si saranno premurati di accertarsi del vostro livello di efficienza renale!
La remissione del sintomo è il solo risultato che spesso noi stessi ammalati chiediamo. Quasi sempre è ciò che ci viene offerto  dal nostro sistema medico.

Tale sistema tuttavia comporta da parte della persona colpita dalla malattia una totale “abdicazione” di ogni potere decisionale, di ogni facoltà sensitiva e di ogni chance di effettiva salute.

Può sembrare più facile; ma ci depriva della possibilità offerta dalla malattia di capire, attraverso l’espressione del corpo, ciò che è più utile al nostro benessere. Ci impedisce di scorgere lo stimolo offensivo (sia esso emozionale, di stile di vita, viro-batterico, ecc) contro cui la malattia tenta di combattere a nostro esclusivo vantaggio.

 E’ come se consegnassimo il nostro sistema vitale – chiavi in mano - a qualcun altro perché non funziona più bene e non sappiamo come farlo tornare alle sue condizioni “oggettive” di efficienza. (alla stregua di quanto accade per l’automobile: che è “altro e al di fuori” dal nostro essere).

Ognuno di voi che sta leggendo, e ha sperimentato le difficoltà della malattia, conosce bene come tale approccio clinico sia spersonalizzante e faccia sentire in balia di medici spesso indifferenti, rendendoci impotenti, spaventati e SOLI!

 La spossatezza fisica e psicologica che accompagna la malattia non rende agevole contattare le nostre più profonde risorse rigenerative, ma è proprio qui che dovrebbe intervenire il supporto del medico; è qui che dovrebbe operare quell’alleanza terapeutica a cui accennavo sopra.

Questo non è tuttavia semplice; i nostri dottori escono da brillanti Università, sono degli specialisti (ancor più dei carrieristi!!) ma mancano dell’esperienza effettiva della malattia, molti di loro non hanno mai attraversato il paesaggio di sofferenza che conduce fino a sé. E’ questo che priva loro della forza “sciamanica” di cui necessita l’alleanza terapeutica.

Scrive in proposito il dott. Dahlke: “ In molte tribù l’aspirante sciamano si augura la malattia capace di iniziarlo e di introdurlo in nuovi campi di esperienze. Sulla base di questo principio accade, talvolta, che un guaritore sia autorizzato a trattare soltanto quelle malattie che egli stesso ha sperimentato personalmente con l’anima e il corpo. Se è vero che il guaritore è la guida delle anime attraverso i mondi interiori, e se è vero che il suo atteggiamento è fondamentale, è necessario che abbia già conosciuto il territorio in cui guiderà i viaggiatori a lui affidati.”

Rudiger Dahlke è oggi uno dei più autorevoli esperti in tema di valore simbolico della malattia[1].
Si tratta in realtà di un filone di ricerca che parte da lontano e si pone come successiva evoluzione di pensiero della Psicosomatica[2]. Infatti già autori come Groddeck (1917) hanno interpretato la malattia organica come espressione  simbolica di processi psichici; e più tardi  Helen  Dunbar e Franz Alexander (1934) hanno ritenuto il sintomo psicosomatico generato da emozioni inappropriate alla situazione o non adeguatamente espresse.

Personalmente ho grande stima per i pregevoli lavori del dott. Dahlke e per la sua concezione unitaria dell’individuo (E’ sua la bellissima frase: “La medicina tradizionale infatti si limita al corpo e nel campo delle “riparazioni” raggiunge spesso risultati eccezionali. Essa ha di recente ceduto la cura dell’anima alla psicologia e, prima ancora, quella dello spirito alla teologia”).
Ritengo però che non sia possibile tracciare una “grammatica”, universale ed esaustiva, del valore simbolico della malattia perché ciò significherebbe negarne la valenza specifica, personale e multifattoriale.
In ogni caso penso che la persona malata non possa e non debba ricorrere da sola alla ricerca di significati della malattia, perché questo potrebbe comportare il rischio di spostare la “lettura” della malattia in un ambito mentale (nel quale è facile cadere nella rete delle idealizzazioni dell’Io,  dei significati mistici o peggio dei sensi di colpa) e allontanarci da quella dimensione del “qui e ora”, del “presente in divenire”, come unica realtà esistente a cui la malattia costantemente tenta di riportarci!



[1] Medico austriaco specializzato in terapie naturali e psicoterapia.  È autore di numerosi libri riguardanti il rapporto tra malattia, psiche e autocoscienza. (“La malattia come simbolo”; “Malattia linguaggio dell’anima”; “Il corpo specchio dell’anima”; “La saggezza del corpo”; “Malattia e destino”. Tutti pubblicati in Italia da Edizioni Mediterranee.).
[2] La Psicosomatica si è sviluppata agli inizi dell’Ottocento (vedi le teorie di Johann Christian Heinroth e, più compiutamente, di Friedrich Groos) e interpreta le malattie come manifestazione somatica di emozioni e passioni negative, (configurandosi al momento della sua origine come nucleo antesignano del movimento psicoanalitico).  Fu definitivamente avversata negli anni 60 del Novecento come inutile tentativo di inquadrare condizioni morbose per le quali non era stata ancora individuata una spiegazione scientifica.